30.1.08

Infedeli alla linea


Da un mesetto circa nella strada dove abito, a 50 metri da casa mia, hanno aperto un locale. Nella strada dove abito non ci sono altri esercizi commerciali, tranne una parrucchiera e un negozio che vende tende. Un tempo c'erano due buoni ristoranti: uno si è spostato e l'altro ha chiuso, al posto del primo ora c'è un garage mentre al posto del secondo c'è un appartamento. C'era anche un rivenditore di moquette; infatti è lì che ha aperto il locale. Insomma, nella strada dove abito, fino a un mesetto circa fa c'erano solo appartamenti, era una strada prettamente residenziale.
Noi abitanti della strada dove abito eravamo tutti preoccupati durante i lavori al locale, durante i lavori al pub. Così veniva chiamato. Una mia amica aveva conosciuto uno dei muratori e mi aveva raccontato tutto. Per fortuna aveva sbagliato la data di inaugurazione e il pub invece di aprire a dicembre ha aperto a gennaio. Mi fa un po' strano chiamarlo pub. Alla parola pub associo inevitabilmente l'Irlanda, la Scozia e l'Inghilterra, in questo preciso ordine, e il locale che hanno aperto nella strada dove abito ha un nome latino americano. Non ricordo quale. Per ora non c'è nessuna intensegna. Come si dirà pub in brasiliano?
La sera dell'inaugurazione, era un giovedì, c'era un bel po' di gente davanti al locale anche fino a notte fonda. La mia camera dà sulla strada, ma di solito non ho grossi problemi ad addormentarmi e con le finestre chiuse sentivo solo un po' di brusio. Mi hanno svegliato solo le urla di un tizio del palazzo accanto intorno alle due di notte che probabilmente aveva più difficoltà di me ad addormentarsi: chiedeva silenzio perché la mattina c'aveva da andare a lavorare, mica come voi maleducati che non fate niente dalla mattina alla sera. Nelle sere a seguire gli avventori sono molto diminuiti, almeno per ora il pub non crea grossi disturbi.
Io comunque ho una certa diffidenza verso questo pub. Non mi fa simpatia. Dentro è carino, arredato con gusto, c'è molto legno, delle belle poltroncine e colori caldi. I frequentatori mi sembrano abbastanza anonimi, abbastanza giovani, abbastanza tranquilli; potrebbero essere peggio. Non ci sono mai entrata, e anzi ci giro piuttosto alla larga. Solo una volta, quando era chiuso ho spiato attraverso la saracinesca. Sul vetro c'era appiccicato un cartello "Il proprietario di questo locale non è responsabile degli schiamazzi notturni"; è lì che ho letto il nome del locale. Ho pensato che invece lo era responsabile, degli schiamazzi notturni.
Insomma per ora io e il locale ci scrutiamo a distanza, di solito ci metto del tempo a digerire le novità.
Però l'altra notte i pochi avventori che fumano fuori dal locale si sono messi a cantare canzoni dei CCCP a squarciagola.
La cosa mi ha confuso.

« Produci, consuma, crepa!
Sbattiti, fatti, crepa!
Colorati i capelli, riempiti di borchie, rompiti le palle, rasati i capelli, crepa! »

Non cantavano proprio questa qui, però.

26.1.08

2 anni

Oggi, oltre al fatto che si sposano due cari miei amici, è anche il secondo compleanno di questo blog. Fa piacere essere arrivata fin qua. Mi guardo il mio blogghino arancione (lo era ancora al momento in cui scrivevo) e ne sono soddisfatta, abbastanza. Abbastanza, perché le cose durante quest'ultimo anno sono cambiate, e molto. A marzo la co-fondatrice di A/R è rientrata in Italia, e forse perché l'Italia è meno stimolante o forse perché sono venuti meno i motivi per cui nacque A/R (mettemo su il blog proprio quando lei si trasferì in USA per rimanere meglio in contatto, per raccontarci le cose, e ha funzionato proprio bene), la Vitt ha smesso di scriverci. Naturalmente preferisco vederla di persona che sul blog e basta; ma per A/R è stata una grossa perdita.
Insomma questo blog è un po' in crisi. Ma non credo di finire come il governo. Poi la mortadella non la mangio, son vegetariana.
Ma è in crisi. Perché ci sono meno post, ovviamente. Ci sono anche meno commenti. In due si fa di più e meglio. Si sa e si vede. Magari la Vitt ritorna a scrivere, ma sinceramente la vedo impegnata in altre cose.
Quindi, sento che l'era di A/R si è conclusa. Finita.
Paura eh!!
Non chiudo il blog. Ci sono davvero affezionata ormai. Ma qualcosa è cambiato e non si può far finta di niente. Quindi se qualcosa è cambiato cambiamo pure noi (io e il blog), non so come, intanto si comincia col colore.
E poi vedremo.

25.1.08

Massimo Gramellini stamani su La Stampa


"Famolo strano

Ho visto Christian De Sica, su un set che assomigliava al Senato, gridare «faccia di m…» a un mastelliano pallido. Ho pensato che il Tg3 fosse chiuso per lutto e lo avessero sostituito con un film dei Vanzina. Allora ho girato sul Tg4, dove Fede saltellava giulivo con le tasche già piene di bandierine di Forza Italia da infilzare nei plastici elettorali. Il senatore De Sica dominava la scena anche lì: si ergeva in mezzo all’aula come su un lungomare della Versilia, con gli occhiali da sole e il maglione rosso appeso al collo sopra la giacca e la cravatta: una «mise» che avrebbe fatto inorridire pure Oronzo Canà. Poi hanno inquadrato un signore che gli scampanellava addosso e non si trattava di Pippo Franco, ma di Marini. Quindi non era un film. Era il Senato della Repubblica. E il tipo da bar non era De Sica, ma Nino Strano di An. Uno che ha festeggiato la vittoria in aula riempiendosi la bocca di mortadella. Quindi un senatore vero.

Fino a vent’anni fa, la classe politica restava lievemente migliore della media dei suoi elettori. Ora l’identificazione è totale. Anzi, la Casta è talmente democratica che ha deciso di scendere anche più in basso. I diniani, per esempio. Erano tre: uno ha votato a favore, uno contro e il terzo si è astenuto. Rinserrato nel suo tinello, l’Italiano osserva questi guitti con la stessa smorfia di degnazione che riserva ai concorrenti del telequiz che, alla domanda se la Sacher sia il dolce tipico dell’Austria o del Rwanda, non sanno quale delle due accendere. Li osserva e all’improvviso si sente serissimo e intelligentissimo. Solo che si chiede perché mai dovrebbe di nuovo andarli a votare."

Sabato al San Bernardo

Io come Mastella

Esprimo tutta la mia comprensione per Mastella che pare ieri abbia letto questa poesia di Neruda che di Neruda non era, ma una bufala che gira su internet come la lettera di Marquez, e come la poesia di Borges. Ecco, io l'ho scoperto ora che la poesia di Borges non era di Borges. Ma almeno non l'ho letta a reti unificate mentre cadeva il governo; l'ho solo appiccicata per un periodo - e tanto tempo fa - ero giovane e naive - sul frigorifero.
Notizia, quella del falso Neruda non del falso Borges, appresa via Wittgenstein, Haramilk. Per un po' di storia di bufale in lingua spagnola invece leggete qui.

23.1.08

Quando uno è simpatico

Vado alle poste per spedire un telegramma per il mio capo. Facciamo finta che il mio capo si chiami Carrannini. Riempio il modulo poi torno dall'impiegata per chiederle cosa devo scrivere sotto 'firma' visto che io chiaramente non sono il Carrannini.
L'impiegata delle poste è una tipa tutta gentile e ridanciana. Giuro. Mi dice di scriverci il nome del mittente, Carrarini. Ecco, sì, dice male il nome, ma nel modulo io l'ho scritto bene, non vedo motivo di correggerla, può risultare antipatico, tanto lei copierà dal modulo.
L'impiegata delle poste copia il modulo.
Poi me lo fa rileggere per vedere se è corretto.
Io il testo del telegramma non lo sto neanche a rileggere, vado dritta dritta a controllare il cognome.
Infatti, c'è scritto Carrarini.
C'era solo da copiare, ma può succedere.
Gentilmente glielo faccio notare.
Risate, battute su battute, e l'impiegata simpatica fa le dovute correzioni. Ristampa il foglio e me lo dà di nuovo per controllarlo.
Carranini.
Manca un 'n'.
C'era solo da copiare
Tanto lo sapevo.
Peccato che non sei antipatica.
- Vabbbenisssssimo. Grazie. Quant'è?

Dal New Yorker

22.1.08

Ho letto...

... su questo strano blog (che però mette tra i link blog libanesi ed io ho un debole per tutto ciò che è libanese e l'ho detto giusto giusto ieri e vedi te la coincidenza) l'articolo di Concita De Gregorio su Repubblica sulla faccenda della sapienza del papa dei docenti contrari e dei rappresentanti del governo e città allibiti. Bah.

21.1.08

Cameriere e shampiste





Waitress e Caramel.

Due film visti a pochi giorni di distanza con molte cose in comune. In tutti e due i casi le registe sono donne, giovani e agli inizi. In tutti e due i casi le giovani donne registe agli inizi recitano anche una parte nel film; in Carmel praticamente è la protagonista. Tutti e due i film parlano di donne, gli uomini sono in secondo piano o sono negativi. Tutti e due film raccontano il mondo femminile in un tipico ambiente femminile (eh eh... devo aprire una parentesi perché il tipico ambiente femminile di questi due film è il mondo delle cameriere e quello delle parrucchiere, ecco, non l'avevamo un po' superata questa cosa, ancora lì siamo, Almodovar e persino Cukor non ci rinchiudono nei diner texani e saloni di bellezza libanesi per parlare di noi - ma forse è un dettaglio - ma comunque mi ha dato da pensare, e chiudo la parentesi).
Di diverso hanno che il primo è un film americano, anche se indipendente, e il secondo un film libanese.

Premessa: per motivi personali ho un debole per qualsiasi cosa provenga dal Libano.

Waitress è carino. Vale sicuramente la pena vedere. Perché è divertente. Perché è ben recitato. Perché ha quel fascino di cinema fatto con la telecamera davvero davvero dei film indipendenti americani. Perché anche se è una commedia e c'è molta fantasia (ma meno male) ci sono tante piccole verità. Perché il marito cattivo e manesco della protagonista è l'affascinante fratello psicolabile di Brenda di Six Feet Under. Perché la protagonista è Felicity del telefilm Felicity che andava in onda qualche anno fa il sabato dopo pranzo e io lo guardavo. Perché la protagonista inventa delle torte e gli dà dei nomi incredibili (Torta Io odio mio marito; Torta Earl mi uccide se scopre che lo sto tradendo; Torta devo smettere di tradire Earl perché non voglio morire; Torta Non voglio il bambino di Earl; Torta della perdente incinta triste e che si piange addosso). Perché il cinema dove sono andata a vederlo io aveva preparato una degustazione di dolci prima dell'inizio del film, tra cui un cheesecake. Perché sono andata a vederlo con 2 amiche. Perché quando siamo uscite dal cinema un tipo ha attaccato bottone con una di noi è dopo aver dichiarato che non se ne poteva più della pioggia le ha chiesto se era sposata (!!!), quindi le ha detto allora stai cercando (!!!!!!) e infine che sì il film non era male ma che Lupi per agnelli era decisamente meglio infatti avrebbe vinto l'Oscar!!!!!!!! Dopo mezzora abbiamo visto il tipo passeggiare abbracciato a una bionda. (Sono andata anche a vederlo Lupi per agnelli, e vincerà anche l'oscar, ma non mi è piaciuto quasi per niente). Poi c'è anche questa storia tremenda che la regista prima che il film fosse ultimato è stata uccisa dall'idraulico che era nell'appartamento accanto al suo quando lei è andata a lamentarsi per il rumore. Qualsiasi recensione del film parla anche di questo.

Caramel è bello. Perché è divertente. Perché è ben recitato. Perché ha quel fascino di film fatti con la telecamera davvero davvero di film girati in paesi di cui di solito non vedi molti film (in pratica tutti tranne gli Stati Uniti). Perché anche se è una commedia ci sono tante verità. Perché si svolge a Beirut (eh eh). Perché i personaggi sono tutti descritti con cura anche quelli minori (tipo il fattorino che recapita i pacchi delle ordinazioni al negozio che lo vedi 2 volte per 3 minuti - eccezionale pure lui). Perché c'è una bella colonna sonora. Perché ti sorprende. Perché non è mai scontato. Perché sono andara a vederlo al terzo spettacolo cioè a mezzanotte e mezzo. Perché eravamo in quattro in sala e le due tipe così hanno commentato all'uscita: "E' l'ultima volta che seguo un conglio di pinco pallino". Perché è piaciuto anche al mio amico, unico maschio in sala. Perché sì. Perché come insegna Anthony Lane (che tanto lo so che lo conosciamo solo io e mia sorella, come il fratello psicolabile di Brenda vedi sopra) è più facile e divertente scrivere di qualcosa che non ti è piaciuto o che non ti è piaciuto del tutto che scrivere bene di qualcosa che ti è piaciuto.
Insomma Carmel mi è piaciuto; e molto.


17.1.08

Marsiglia/3


La donna sbagliata era anche la donna del bevitore.
Lui ad alta voce si lamenta della sua leggerezza con gli altri avventori.
Lei per quieto vivere si scusa col distinto signore e torna al bancone assieme agli altri.
Ma l'uomo, offeso, non si accontenta, continua a lamentarsi, è una zoccola, va con tutti, non ci si può fidare.
Gli altri cercano di calmarlo.

La donna non partecipa alla discussione ma segue con aria sconsolata.

L'uomo distinto che ha causato tutto questo mangia tranquillo la sua pizza, sorseggia champagne e ci intrattiene.

Noi facciamo finta di niente e cominciamo a mangiare il secondo: 3 triglie fritte.

La donna sconsolata si offende anche lei e se ne va, seguita dalle sue tre figliole in ordine di altezza, 12, 10 e 8 anni. Si vede che son sorelle, tutte e tre rotondotte, capelli neri lisci legati. Tutte e tre portano ai piedi ballerine nere lucide senza calze (è il 31 dicembre nel caso ve ne foste dimenticati).
Tutte e tre hanno l'aria offesa e un po' sconsolata della madre.
L'uomo offeso non demorde. Lancia occhiate al suo rivale. Che non lo considera minimamente: è intento a conversare amabilmente con noi di prestigiose stazioni sciistiche sulle alpi italiane.

L'uomo offeso si offende ancora di più. La sua offesa è direttamente proporzionale ai bicchieri di alcol che gli servono e che lui butta giù. Forse i suoi amici dovrebbero cambiare strategia. Si avvicina al nostro tavolo, avvicina anche una sedia "vedi è come se io mi mettessi a fare il cretino con queste tre signorine".
Noi un po' sorridiamo, un po' facciamo finta di niente, un po' addentiamo le sarde e tutte le lische insieme.
A me personalmente, l'uomo offeso non piace. Non so quanto l'ex bella di quartiere sia zoccola, ma cosa importa, io sto con lei.
Comunque non ma le sento di dirglielo.
Il pizzaiolo corso sardo zingaro ci tiene alle sue uniche clienti della serata (della settimana? del mese? da sempre?) e ce lo allontana.
Merci.

Ma niente, oh, non demorde, e a forza di insistere arriva dove voleva arrivare: alle mani.
Com'è o come non è, perché proprio non l'ho capito, alla fine l'uomo offeso e un tizio mai visto prima d'allora (sarà stato chiuso nel bagno tutto il tempo) escono a picchiarsi nel vicolo.
E tutti dietro.

Nel ristorante rimaniamo io, Fra, Gin e l'uomo distinto. Beviamo champagne e ascoltiamo musica italiana di un cantante mai sentito che reinterpreta canzoni di Toto Cotugno. Ancora.

Fuori schiamazzi.

La prima a rientrare è la ragazzina cameriera. Si sta sganasciando dalle risate. Mai visto nessuno ridere così tanto. Diventa paonazza, rossa, senza fiato. Poi entrano tutti gli altri, anche loro ridendo ma più composti. Infine entra il campione. L'uomo offeso. Ha vinto lui. Incredibile. E pare sia bastato uno schiaffo ben piazzato almeno spero sulla guancia per mettere l'altro al tappeto.
E' questo che fa ridere tanto la ragazzina, che mima la scena mille volte.
Gli animi si placano.
Tutti ridono. Poi tutti ballano. Dopo aver cambiato CD, finalmente.
Noi ce ne andiamo. Tutti sono felici, siamo probabilmente i loro unici clienti paganti della serata. Ci augurano che la salute ci assista, forse per la bouillabaisse che ci hanno fatto ingurgitare.
Noi ce ne andiamo, a scoprire il resto di Marsiglia e come se la passa per l'ultimo dell'anno.

13.1.08

Marsiglia/2


E' il 31 dicembre, ultimo giorno dell'anno e forse avremmo dovuto chiedere al nostro personale Fabio Montale dove passare la serata. Non ci abbiamo pensato quando si è fermato al nostro tavolo al bar in mezzo alle Calanques. Ma evidentemente il suo spirito era con noi e ci ha guidato alla scoperta della sua Marsiglia.
Parcheggiamo l'auto dove troviamo posto ed è già buio. Passeggiamo per un po' senza meta e poi cerchiamo sulla cartina il quartier Panier. Il quartiere di Montale. Il quartiere degli emigrati, degli italiani, degli africani, degli arabi, dei corsi e degli zingari e mi scusino se mi sono dimenticata qualcuno ma ho sempre avuto dei problemi a ricordarmi i nomi delle persone. Marsiglia essendo da sempre un importante porto durante la guerra è stata pesantemente distrutta e Panier è uno dei pochi posti storici rimasti intatti. Un tempo quartiere malfamato oggi il comune cerca di recuperarlo favorendo l'apertura di bei negozi, laboratori creativi e ristoranti alla moda. Oggi chiunque può passeggiare per i suoi vicoli ma allo stesso tempo il Panier sta perdendo il suo particolare fascino. Non si può mai avere tutto.

Sono solo le sei e mezzo ma è buio buio e per i vicoli non c'è proprio nessuno, sembrano le due di notte. Passa una auto a tutta birra. Alcuni rapper escono da un bar. Una vecchina torna a casa con la busta della spesa.
E' l'ultimo giorno dell'anno. Non è un giorno come tutti gli altri. I negozi sono tutti chiusi. I pochi bar sono pieni di soli uomini. Alla fine arriviamo di fronte a un piccolo ristorante, tre tavoli, un bancone e una TV che occupa 1/4 del locale. Per curiosità leggiamo il menù appiccicato fuori dalla porta. Esce una donna, cinquant'anni tutti vissuti, capelli lunghi colorati di biondo.
"Buonasera ragazze. Avete letto il menu. Venite stasera. Niente di speciale. Come stare in famiglia. Si sta bene. Io cucino bene. E' da quarant'anni che sto nel pesce. La vera bouillabaisse di Marsiglia."
Sorridiamo. Le chiediamo la differenza tra la bouillabaisse e la soup de poisson. Ce lo dice ma non me la ricordo.
Proseguiamo per il nostro girovagare.

Gin: Io sarei per cenare lì.

Fra: Sì sì sì. Anche a me è piaciuto. Secondo me ci si mangia anche bene.

Sburk: Voi siete di fuori. E' una bettola. Ma bettola bettola.
Mi fanno un sorrisino.

Girovaghiamo alla ricerca di un aperitivo, preferibilmente con ostrica. Ma è tutto chiuso. E' l'ultimo dell'anno. Camminiamo ancora, cominciamo a essere stanche, è tutto il giorno che andiamo su e giù per le Calanques.

Gin: Dai torniamo alla bettola.

Fra: Sburk non è convinta.

Sburk: Ma proprio per niente.

Gin: Incamminiamoci in là e vediamo cos'altro troviamo.

Mi fanno un altro sorrisino.
Non troviamo niente di particolare. Niente che valga la pena. Niente che superi in originalità la bettola. E siccome siamo due contro una e siccome poi tanto so che me ne pento se dico di no, andiamo alla bettola.

Entriamo.

Quattro tavoli.

Uno occupato da un signore ben vestito cravatta compresa e capello argento un po' sul lungo. Beve champagne in un flute da una bottiglia nel cestello del ghiaccio.

Un altro tavolo è occupato da due ragazzi adolescenti.

Dietro al bancone un uomo abbronzato con i baffi alla Dalì, è il pizzaiolo, e la nostra amica bionda cuoca.
Davanti al bancone una donna sulla quarantina portati male, capelli lunghi, bocca sdentata, bel corpo che ogni tanto si mette a ballare; e balla benissimo. Un bevitore.
Ci sediamo al tavolo accanto all'uomo con la cravatta.
Viene ad aparecchiarci un bambina: 13 anni, portati come si deve finalmente.
Poi viene la cuoca bionda e ci chiede cosa vogliamo mangiare.
Bouillabaisse, ovviamente. Anche a noi il vino bianco arriva nel cestello del ghiaccio.
Accanto al mega schermo c'è anche lo stereo. In nostro onore, forse, viene messo un cd di un cantante italiano mai sentito che canta i classici di Toto Cutugno. Il cd, solo quello, girerà sullo stereo per tutta la sera.

L'uomo con la cravatta attacca bottone. Soprattutto con Gin che gli da spago. Parla di barche e di Viareggio.

Entra un tizio di colore in maglietta a maniche corte (è il 31 dicembre nel caso ve lo foste dimenticati) con gli occhiali e qualcosa in una tortiera; il pizzaiolo (che più tardi ci dirà di avere origini sarde, corse e zingare e si vedono tutte) gliela infila nel forno, il signore fa un balletto con l'ex bella della quariere, poi quando è cotta la sua torta, saluta tutti e se ne va, a cena a casa sua ovviamente.

L'uomo con la cravatta sceglie i tre flute meno polverosi e ci versa lo champagne.
Arriva la bouillabaisse. Una pentolona di bouillabaisse. Ce ne toccano circa 3 o 4 scodelle a testa. E un mare di crostini. E la salsa per i costrini che è aglio allo stato puro, aglio cremoso, aglio con l'aggiunta di altro aglio.
Ci pare buona, la bouillabaisse.

Anche all'uomo con la cravatta arriva il cenone di capodanno, per accompagnare gradevolmente il suo champagne: una pizza. Quando i nostri flute sono vuoti ce li riempie e quando può invita chiunque al suo tavolo e ad un flute di champagne. E' un signore.

Tutto fila liscio.

Fino a quando l'uomo con la cravatta invita al suo tavolo la persona sbagliata. La donna sbagliata.

10.1.08

Per quel che valgono i sondaggi fatti così, nel senso ora voto 1000 volte e vediamo cosa succede

Sul sito di Prima Pagina, lo storico programma di lettura dei giornali di Radio 3, il sondaggio della settimana è il seguente:

Giuliano Ferrara propone di inserire nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo la frase: la vita va tutelata dal concepimento. Siete d'accordo?

Quando sono andata io a votare (una volta sola) i risultati erano i seguenti:
Sì 56%
No 43%
Non so 1%

Ve lo volevo solo dire, ecco.

7.1.08

Marsiglia





















"Non c'è nulla di più piacevole, quando si ha tempo da perdere, che farsi uno spuntino, la mattina, di fronte al mare." (Capitolo 1, Chourmo, Jean-Claude Izzo)

Per me Marsiglia esiste da quando ho incontrato Fabio Montale. Va bene, a Marsiglia ci saranno passati anche i greci, i romani, i visigoti, gli ostrogoti, i franchi e Carlo Magno. Ci saranno anche nati Artaud, Daumier, Zidane e Izzo. Ci sarà anche morto Rimbaud e pare che abbiano ritrovato l'aereo di Saint-Exupéry vicino ad un isolotto lì davanti. Ma nessuno è riuscito a farmi scoprire Marsiglia come Fabio Montale. Nessuno è come Fabio Montale, perché Fabio Montale non esiste.

Ma io l'ho trovato e c'ho anche parlato.


Non è di origine napoletana come c'è scritto nei libri di Izzo. Ma si sa, gli scrittori si ispirano alla realtà ma poi inventano, cambiano, romanzano. Montale infatti è di origine siciliana e precisamente di Messina. Me l'ha detto lui. I suoi fratelli più grandi sono nati a Messina, lui invece è nato a Marsiglia. Lo ha detto con dispiacere, ma forse era solo per fare piacere a noi che eravamo italiani.


Non abita neanche a Les Goudes, "ad appena mezz'ora dal centro della città, non era che un villaggio di seicento persone. Da quando ero tornato a vivere a Marsiglia, una decina d'anni circa, non ero riuscito a decidermi ad abitare altrove se non qui, a Les Goudes. Una casetta - due stanze e cucina - che avevo ereditato dai miei genitori. Nel tempo libero l'avevo risistemata alla bell'e meglio. Non era certo lussuosa, ma dalla terrazza, scendendo otto gradini, c'era il mare, e la mia barca. E questo era senz'altro meglio di tutte le speranze del paradiso." Per arrivare davvero alla casa di Montale bisogna proseguire, sempre in macchina, sempre lungo il mare, sempre lungo le bianche Calanques, superare Les Goudes ed arrivare dove la strada finisce, a Callelongue. Qui si sta in cima al mondo, lo dice anche Montale. A Callelongue si lascia la macchina e si prosegue a piedi lungo uno dei sentieri e se si ha fortuna e voglia si arriva fino a un gruppetto di tre o quattro case e un cafe con terrazza sul mare. Dalla terrazza si scendono 8 gradini e c'è la la piccola spiaggia dove i bambini, anche il 31 dicembre, sono in mutande e giocano con i piedi nell'acqua. Oltre il mare le isole. Il bar è gestito da tre uomini, uno ai tavoli e due in cucina che si intravedevono da una finestra aperta intenti a preparare crepe e insalate nizzarde. Ed eccolo: è lui, lo riconosciamo al volo, Fabio Montale. Qui si è nascosto, dopo 3 romanzi di morti ammazzati e amori finiti male, ma sempre a 2 passi da Marsiglia. Non glielo chiediamo, ma si capisce, lui a Marsiglia forse non ci torna più, almeno non per ora, si accontenta di uscire dalla cucina, quando i clienti sono rimasti in pochi, sedersi con loro e ascoltare i loro i racconti. Per ora Marsiglia gli basta così.

3.1.08

Beckett/Brook - Fragments











Il Teatro Studio di Milano è su pianta ovale. Non c'è un palco né tanto meno un sipario. In basso, in platea, ci sono quattro o cinque file di scaloni con divanetti e qualche cuscino per terra. Non ci sono palchi, ma quattro ordini a ringhiera con una fila unica di sgabelli. I nostri posti sono parecchio leterali e alti. Con il mento appoggiato alla ringhiera rossa abbiamo assistito ai tre attori che hanno recitato i 5 atti unici di Beckett diretti da Peter Brook.
1. Perché non ti lasci morire, dice lo storpio al cieco. Lui risponde che ancora non è abbastanza scontento.
Lorenzo! Chiamate un 'ambulanza. Lorenzo rispondi. Insomma qualcuno chiami un dottore. Le luci si accendono. L'attrice per il secondo atto era già in scena sulla sua sedia a dondolo che a dondolo non era. Sulla seconda ringhiera una donna si agita intorno a Lorenzo. L'uomo si riprende, forse solo un lieve malore. La coppia esce. Lo spettacolo pure riprende.
2. Same old groans and moans from the cradle to the grave.
3. Due uomini vivono ciascuno nella loro busta bianca. A turno vengono svegliati da un grosso pungiglione che cala dall'alto. A turno si infilano gli stessi pantaloni, la stessa giacca, lo stesso cappello e le stesse scarpe. A turno trascinano il compagno addormentato nella busta un pochino più in là. Uno è irrimediabilmente scontento, l'altro è incredibilmente felice. Atto senza parole.
4. Di nuovo la donna. Atto brevissimo. Dieci minuti al massimo. E' Neither.
5. Infine l'ultimo. Tre vecchiette sulla panchina. A turno una si allontana e le due che rimangono si confidano un segreto.
Fine. Troppo presto. Abbiamo applaudito a lungo nella speranza di un impossibile bis.

2.1.08

E i buoni propositi per l'anno nuovo?


Cominciamo mirando in alto.
Eccone uno, segnalato da I.
E' un articolo di La Repubblica del giornalista Paolo Rumiz.

Niente auto, poco cibo: la mia vita a emissioni zero

Verdure di stagione, docce brevi, luci a bassa intensità, poco riscaldamento
Per sette giorni abbiamo provato a vivere consumando il minor quantitativo di CO2

C’è un uomo che vive al freddo, senza automobile e con la dispensa semivuota. Mangia poca carne, riutilizza la carta usata e va in bici al mercato per comprare rape sporche di terra dai contadini.
E’ un cuorcontento, accetta ogni restrizione e anche nei giorni di festa vive lietamente con i motori al minimo.
Chi può essere? Un originale, direte. Un poveraccio con la pensione da fame.
Sbagliato. Quel tale è un paladino solitario di “Emissione-zero”, uno che tenta di vivere producendo il minimo di Co2, il gas che la civiltà dello spreco spara nell’atmosfera surriscaldando la Terra e chiudendoci tutti in una cappa mortale. Uno che cerca di vivere mirando a quello zero impossibile, testardamente, per salvare il mondo che verrà.

Ecco, per una settimana ho provato a vivere così. All’osso, calcolando l’equivalente in anidride carbonica di ogni minimo atto. Ho misurato i chilometri in treno, il cibo consumato, i tempi di cottura, gli sciacquoni, e poi ho tirato le somme.
Risultato? Ho consumato metà della metà e la mia vita è cambiata. Sono diventato più ricco, più leggero, più sensibile all’insulto dello spreco. E sicuramente più ai ferri corti con un Paese che non fa nulla per premiare il consumo virtuoso.

La storia comincia quando sento parlare di una società di Legambiente dal nome trasparente di “Azzero Co2″, col timbro del Kyoto Club.
Telefono, dico cosa vorrei fare, spiego che vivo a Trieste, in una situazione ottimale, già di “bassa energia”.
Non sono pendolare, non ho auto né lavastoviglie, sto a un secondo piano senza ascensore e ho tutto sotto casa: ufficio, negozi, stazione.
La Tv l’ho buttata per manifesta inutilità; possiedo solo una radiolina a onde corte e un glorioso telefonino vecchio di sette anni
“Lei è un virtuoso”, annunciano. Ma la virtù non basta: loro vogliono accertarsi che sia anche matto abbastanza per sottomettermi alle prove più dure. Così frugano nella mia privacy, annotando ogni minuzia dei miei consumi e si buttano nel conteggio.
Elettrodomestici, caldaia, luce, eccetera: totale 2427 chilowattore annui, corrispondenti a 1578 chili di Co2, come sette frigoriferi pieni. Al giorno fanno 4,32. La metà della media europea che è di nove chili pro capite, dato confermato da Greenpeace.
“Ottimo - penso - parto in vantaggio”.
Invece no, non sono inclusi i trasporti, e sono proprio quelli che sballano il conto. L’aereo soprattutto, che spara gas-serra in quantità letali. Solo per ricuperare i voli di quest’anno, mi dicono, dovrei piantare alberi per una vita. Replico che sono pronto, anche a non volare più, come Terzani dopo il famoso incontro con l’Indovino. Risposta: “Intanto cominci leggendosi un bel vademecum di consumo etico”.
L’inizio è terrificante. Regole penitenziali a raffica. Se fosse prescritto anche il caffè di cicoria, sarebbe un perfetto manuale di autarchia fascista.
Ma è una guerra necessaria: Co2 è in agguato ovunque. Nei cibi refrigerati e nelle lunghe cotture. Nelle confezioni luccicanti di plastica e nel cibo che ha alle spalle grandi distanze di trasporto camion. Soprattutto nella carne, perché il foraggio inquina cento volte più del letame.
Scopro che la mia vita va rivoltata come un calzino. Devo acquistare il pane sotto casa; comprare verdure di stagione, meglio se locali; fare scorta di legumi secchi e abbandonare l’acqua minerale. E poi luci a basso consumo, riscaldamento minimo, docce brevi non quotidiane e - ovviamente - raccolta differenziata della spazzatura. Ultimo sigillo: viaggiare meno. Solo treno e bicicletta.
Mi dicono che avrò a disposizione consulenti “etici”, pronti a sciogliere i miei dubbi e a calcolare l’effetto-Co2 delle mie giornate, sulla base di un rapporto quotidiano che mi impegno a mandare.
“Lo zero se lo scordi - mi smontano in partenza - a quello non arriva neanche un monaco tibetano”. Chiedo almeno quale può essere un buon obiettivo. Risposta lapidaria: “Il massimo”. Tanta è l’apnea della Terra.

MERCOLEDI’ - PRIMO GIORNO
Mi sento sommerso di divieti, come un ebreo osservante cui è prescritto anche il piede con cui scendere dal letto. Dio mio, se devo stare attento a ogni boccone che mangio, al compostaggio, al riciclaggio eccetera, il mio diventa uno sforzo monomaniaco, e allora dove va a finire l’etica se non ho più tempo per accorgermi del mendicante sotto casa? E poi come racconterò tutto questo? Elencare una serie di piccoli gesti sparagnini è una noia mortale; come tenere un diario di bordo restando chiusi in cambusa. Una sfida narrativa oltre che ecologica.
Per cominciare azzero tutto, nel timore di sbagliare. Per un giorno, niente riscaldamento, acquisti, spostamenti. Posso farlo, la dispensa è piena, non ho viaggi in vista e fuori fa un caldo schifoso. M’accorgo che posso cucinare anche senza il fuoco, così mi regalo un pranzo con acciughe marinate, pane e spinaci crudi col parmigiano a scaglie. Funziona, ma sono pieno di dubbi. E’ Natale ma sul mio tavolo è quaresima. E poi che senso ha tirare la cinghia se il mondo continua a vomitare gas fottendosene del domani? A fine giornata mi sento strano e leggero, come dopo un Ramadan.

GIOVEDI’ - SECONDO GIORNO
Avvio energico. Avvito una cassetta sul retro della bici e, così bardato, affronto il mercato ortofrutticolo. In un angolo trovo un contadino che ha steso a terra un tappeto di meraviglie dimenticate. Verze terragne, crauti, aglio piccolo e pestilenziale, miele di ape dalmatica, uova ruspanti. Compro rape e cachi. Non un’occhiata alle fragole spagnole e ai pomodori di serra. Spendo la metà del solito e mi faccio pure una chiacchierata. Intanto arriva la buona notizia: la prima giornata è andata bene: 1.57 chili di Co2. Grande.
Ma la sera mi chiama Repubblica, l’indomani mi spediscono a Monza per servizio ed è chiaro che il viaggio sballerà la media Co2. Ma è meglio così, lo scontro si fa duro. Così scelgo il massimo: solo treno, niente taxi e partenza con bici al seguito. Cominciano le sorprese: gli Eurostar non hanno il vano necessario al trasporto. In Italia le due ruote viaggiano solo su polverosi regionali, il che vuol dire cambi continui e tempi da tradotta del Piave.
Comincio a capire. La mia è una guerriglia, un atto eversivo. Devo rassegnarmi ad avere il sistema contro. Tengo duro, cerco ancora, finché scopro sull’orario cartaceo che un treno veloce col porta-bici esiste. Va a Schaffhausen, Svizzera. L’unico, in tutto il Grande Nord. Dai, che ce la fai.
La bici comporta altre complicazioni. La liturgia del bagaglio cambia completamente. Devo dividerlo in due sacche e metterci accanto lo zainetto da computer. Come ricambio, niente camicie: solo magliette che non si stirano. Un salutare esercizio di alleggerimento.
Dovrei anche cercare un albergo eco-compatibile - c’è una guida apposita che li elenca - ma è troppo complicato e chiedo a un amico di ospitarmi. Sotto casa scopro un’osteria nuova, mi faccio un baccalà in umido e un calice di rosso. Per la prima volta sono ottimista: a fine giornata ho prodotto 1.22 kg di Co2. Un po’ meglio di ieri.

VENERDI’ - TERZO GIORNO
Dal treno per Venezia vedo migliaia di camion fermi in una nube di Co2. Tradotte di agnelli dall’Ungheria alle Calabrie, yogourth francesi diretti in Friuli. Lo sciopero-incubo è finito da una settimana e tutto è come prima. L’Italia ostaggio dei Tir, come il Cile di Allende.
A Mestre piazzo le due ruote sull’Intercity. Nella tratta italiana il vano-bici non lo usa nessuno, è tristemente vuoto. In carrozza la gente mi guarda strano. Esco dagli schemi: viaggio con un mezzo povero, ma porto una cravatta elegante e un cappello da rabbino (naturalmente l’ho fatto apposta).
A Vicenza mi si siede accanto una mamma ansiogena con due bambini-mostri. Il dialogo si limita al cibo: tavola pancino fame prosciutto mangia bevi ancora basta finisci gnam gnam. Il maschietto ripete: mio mio mio. Poi, guardando il vuoto: io io io io. Conosce solo l’ausiliare “voglio”. Ignora il “posso” e il “devo”. Risate, urla, colpi ai tavolini senza timore di punizioni. E’ chiaro: sono i bambini il primo anello della catena dello spreco. Ai bambini non si nega nulla. Il livello mondiale di Co2 dipende anche da loro.
Il bar della stazione di Milano è una mostruosa macchina di rifiuti. In un minuto vedo sparire nelle borse dei viaggiatori tonnellate di confezioni di plastica. Fuori l’aria è irrespirabile, inghiotto polveri sottili per una settimana. Ma è un avvelenamento utile: aumenta la rabbia e la voglia di cambiare. Sento che in me sta avvenendo una trasformazione irreversibile.
La sera a Monza piove. Non demordo, pedalo nel buio in mezzo a villette blindate, tra soli immigrati, fino a destinazione, un condominio di periferia. A intervista finita mi chiedono di restare a cena. Accetto, ma è un clamoroso errore. Per restare nella norma devo rinunciare al meglio: lo stufato di manzo, perché ha consumato troppo gas. Ci ridiamo su, ma io torno a Milano-Centrale scornato, bici-treno nella nebbia tra torvi pendolari lumbard.

SABATO - QUARTO GIORNO
Rientro a casa. A Mestre tutti i treni sono in ritardo ma in compenso quaranta megaschermi sparano in simultanea pubblicità per intontire l’utenza. Un costo spaventoso in termini di inquinamento, acustico e atmosferico. Ma nessuno si ribella, siamo una repubblica delle babane. Tacere, obbedire, consumare.
La carrozza per Trieste è surriscaldata (mi prendo un raffreddore da fieno) e piena di telefonini sintonizzati sul nulla. Ragazzi ridono ascoltando da un computer una voce che gracchia minacce anti-immigrati in un veneto barbarico condito di bestemmie. Torno a casa nella pioggia, stanchissimo, ma la performance Co2 del viaggio è buona: 26.81 (14.40 + 12.41) in due giorni, tutto compreso.

DOMENICA - QUINTO GIORNO
Vado in centro, tra le luminarie. Gli italiani saranno anche più poveri ma i loro carrelli sono stracolmi. In un Paese che frana riempire la dispensa è una terapia ansiolitica, l’unica consentita. Dilapidare, per non pensare che si sta dilapidando. Ma la paura affiora negli sguardi. E’ quasi Natale e nessuno sorride. A me sembra invece di sentire le feste per la prima volta dopo anni.
Approfitto della domenica, vado in ufficio e metto la stanza in assetto-risparmio. Nella risma della fotocopiatrice piazzo fogli già usati da un lato, poi elimino ogni situazione di stand-by e faccio strage di luci inutili. E la sera, visto che ho un cesto di pane secco, metto a mollo le pagnotte per fare gli gnocchi. Ricetta della nonna, con aggiunta di speck, aglio, formaggio, prezzemolo eccetera. Vengono una meraviglia, e la performance migliora ancora: 0.97.

LUNEDI’, NATALE - SESTO GIORNO
E’ Natale e faccio la rivoluzione. Chiudo il freezer, tanto non serve. Visto che è dicembre, metto in terrazza una dispensa per le verdure. Sposto il tavolo vicino alla finestra per consumare meno luce. Compro due prese elettriche intelligenti, che si disattivano quando le batterie del telefonino o computer sono cariche. Installo in bagno un rompi-getto, che dimezza i consumi. Ordino un carica-telefonino da bici che sfrutta l’energia della pedalata.
Ormai ci ho preso gusto. Sostituisco il dentifricio col bicarbonato. Elimino i sacchi di plastica della spesa e metto accanto alla porta una borsa con le ruote. Poi divido le immondizie alla tedesca. Cinque contenitori: vetro, plastica, cibo e carta, divisa tra confezioni alimentari e giornali. E’ un atto solo simbolico - nella civilissima Trieste non esiste raccolta differenziata - ma che importa: mi serve come autodisciplina e a capire quanto spreco. La prima somma è stupefacente: in cinque giorni la spazzatura si è dimezzata.
Mi chiedo: perché, accanto alla Costituzione, a scuola non si insegna anche consumo etico? Perché i presidi non smantellano quegli osceni distributori di merendine? Mi accorgo di tante cose, per esempio che i negozi di cose “biologiche” hanno spesso prezzi immorali e vendono roba che ha alle spalle trasporti lunghissimi. Un imbroglio per ricchi e malati terminali.
Un amico mi sfotte, dice che lo sforzo è patetico e il mondo affonderà lo stesso. Rispondo che la parola “Economia” viene dal greco e significa “gestione della casa”. Vuol dire che gli antichi sapevano: il mondo si cambia partendo dal proprio piccolo. Sì, sento che funziona. Sono entrato a regime: il bilancio della giornata è ottimo: 0.75. E’ una settimana che non accendo il riscaldamento e l’idea che Putin - il “genio” della fiamma azzurra nel mio bollitore - abbia guadagnato meno, mi fa godere.

MARTEDI’ - ULTIMO GIORNO
Invece dell’abete natalizio, che non ho mai comprato, trovo dai Forestali una piantina di quercia e salgo a piantarla in un parco di periferia. Scopo della missione: compensare l’anidride emessa nel viaggio a Milano. Per coerenza ci vado a piedi, seguendo le prescrizioni di Kyoto. Poi torno in città felice, con le mani sporche di terra e una fame da bestie. Così ho santificato le feste.
Chiudo la mia settimana “all’osso” invitando a casa tre amici. Cena natalizia autarchica: tonno marinato con sedano e cipolla, seppie in umido. Al posto delle lampadine, candele; e così scopro che con la luce bassa ci di diverte di più. C’è un gran discettare di consumi, la storia di Co2 appassiona tutti. Il risultato del giorno è ottimo: 0.36. Un decimo della mia già virtuosa base di partenza.
Festeggiamo con coppe di yogurth coperto di miele e mirtilli secchi, poi una grappa di Ribolla. In una settimana ho messo a segno una media-record di kg. 0.84 di Co2, che sale a 4.52 con tutto il viaggio a Milano (senza lo sconto dell’albero piantato). E’ stato difficile? Per niente. A Natale finito ripenso ai supermarket, agli schieramenti di inutilità luccicanti, e mi sembra di rivedere i reduci malconci di una guerra perduta, mille anni fa.

Paolo Rumiz