4.11.08

Le grandi città sotto la luna


Una scena illuminata.
Otto sedie, quattro da una parte, quattro dall'altra, nel centro una cassa acustica.
Poi tamburi, trombe, chitarre elettriche, fisarmoniche, scarpe, gomitoli di lana, acquari con pesce rosso, bastoni che diventano spade, cappelli e scialli, nascosti sotto le sedie.
Otto attori, tre donne e cinque uomini.
Alcuni in piedi, passeggiano.
Altri già seduti, uno con la chitarra suona where have all the flowers gone.
Tutti e otto attendono che il loro pubblico si accomodi nelle poltone.
A loro volta gli otto si accomodano nelle loro sedie.
Lo spettacolo ha inizio.

La compagnia è L'Odin Teatret di Eugenio Barba. Compagnia storica del teatro sperimentale degli anni 70 con sede in Danimarca. Barba, pugliese, giovanissimo emigrò in Norvegia per lavoro e lì si avvicinò al teatro; in seguito si stabilì con la sua compagnia a Holstebro (Danimarca) il cui comune gli concesse una sede e qualche soldo. Eugenio Barba è stato allievo di Jerzy Grotowsky, ideatore del teatro povero, con cui studiò per tre anni. Jerzy Grotowsky per molti anni si stabilì col suo laboratorio presso il Teatro di Pontedera. Il cerchio così è chiuso: Le grandi città sotto la luna era in scena il 2 e 3 novembre al nuovo teatro di Pontedera, il Teatro Era.

Lo spettacolo ha inizio.
E' l'attore all'estrema destra che inizia. E' sulla cinquantina, vestito di grigio, aria ironica. Parla in italiano, anche se italiano non è. Si alza con un bicchiere di vino in mano e al centro della scena lo frantuma per terra. Le sue parole vengono tradotte immediatamente dall'attrice all'estrema sinistra. E' sulla cinquantina, lunghi capelli grigi, lungo scialle, lungo vestito. Parla in inglese, forse inglese lo è. Accanto a lei c'è un suonatore di tromba, e poi quello con la fisarmonica che all'occorenza suona anche la tromba e il tamburello. Segue il chitarrista. Dall'altra parte della cassa acustica, è il primo attore a raccontare la propria storia, un po' la racconta, un po' la canta, un po' sta seduto, un po' si alza. Un po' all'occorenza suona la chitarra elettrica. Accanto a lui un'attrice, più giovane, capelli lunghi lunghi neri, grande bocca, voce fortissima, soprattutto quando canta. Batte pure sul tamburo che tiene tra le gambe. Altra attrice, questa volta sulla sessantina. Lei si cambia le scarpe, si infila una giacca, dei guanti e un cappello per diventare Kathrin, la figlia muta di Madre Coraggio di Brecht e per gran parte dello spettacolo è sdraiata nel centro della scena, un foglio di carta appallottolato in bocca e acquario tondo con pesce rosso tra le gambe aperte. Sono loro gli otto, che dopo poco vengono raggiunti da un nono, un soldato delle forze di pace che si piazza in mezzo, in piedi, quattro da una parte, quattro dall'altra. E partecipa con gli altri a quest'orchestra.
E sono canzoni, poesie, racconti, frammenti, danze e musica. In alternanza e tutto insieme.
In tedesco, italiano, inglese, danese, credo. E altro.
Un po' Brecht. Un po' gli somiglia. Un po' è proprio lui. Un po' è altro.
E si parla di guerra, di esilio, di stragi, di Bosnia, Afghanistan, Iraq, Halle, sotto la luna nelle grandi città, credo. E altro.
Infine arriva il decimo, un ballerino, di colore.
Infine lo spettacolo finisce.
Infine i dieci in piedi ricevono gli applausi. Tanti.
Bis, nessuno.

Per presentare lo spettacolo, sul programma del Festival del Teatro Era c'è uno scritto di Eugenio Barba intitolato l'imprudenza del teatro. Ne riporto qua sotto alcune parti che mi sono piaciute:
"Avviene nel momento in cui ci diciamo: “Erano tutte chimere. Abbiamo diritto d’esser stanchi”. Invece si può cavalcare chimere tutta la vita senza mai vincere, ma senza essere sconfitti. La posta in gioco, infatti, non è cambiare il mondo, ma vivervi degnamente […]. Il contravveleno per combattere la tendenza ad accontentarsi ha molti nomi. Userò quello più generico di “poesia”. Può sembrare un termine patetico e abusato. Ma ho in mente alcune frasi di García Lorca quando spiegò […] che cosa non fosse la poesia di Pablo Neruda. Disse che gli mancavano i due elementi dei quali molti “falsi poeti” si sono nutriti: l’odio e la derisione. Poi rappresentò Neruda come uno di quegli artisti che […] ci incantano con i loro prodigi, e lo ammantò con un simbolo potente. Disse: “Quando Neruda intende colpire e solleva la spada, si ritrova subito una colomba ferita fra le dita”.
[…]Quando García Lorca terminò la sua breve presentazione di Pablo Neruda, si rivolse direttamente ai propri ascoltatori per dir loro: fate attenzione, c’è una luce nascosta nei poeti. Cercate di percepirla per nutrire quel grano di follia che ognuno porta dentro di sé, e senza il quale è imprudente vivere. Disse proprio così: imprudente."

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