11.12.08

Gramellini su La Stampa di oggi

Ho sentito stralci di questo editoriale stamani alla rassegna stampa di Radio Popolare. E' un argomento a cui penso spesso, e mi sono sempre chiesta se sono io che sono diventata negli anni più insofferente (o più nervosa) alle arrabbiature degli altri, o se davvero in generale siamo tutti diventati più intolleranti, meno rispettosi, più agressivi, negli ultimi anni, cioè da quando la politica è diventata quella che è.
Mi aspettavo di più dall'articolo di Gramellini. Ma come sempre si fa leggere.
Sempre su La Stampa c'è anche un articolo di Flavia Amabile sempre sul nostro grado di irritabilità.

Eravamo nervosi
Nel traffico di ieri mattina ho visto due donne giovani ed eleganti scendere dai rispettivi carri armati per insultarsi sanguinosamente riguardo a non so quale diritto stradale o feudale di precedenza. Gli occhi, in particolare, erano uno spettacolo spaventoso: dilatati in un’espressione stravolta, tipica di chi ha abusato di sostanze psicotrope o ha perso la misura reale delle cose. Asserragliato nella mia vettura, ho dirottato lo sguardo sulla prima pagina del nostro giornale, dove uno dei ragazzi che nel fine settimana devastarono per puro sfizio la stazione di Avigliana confessava: «Eravamo nervosi. E allora?».

E allora ci si chiede da dove arrivi questo virus esistenziale che rende tutti così suscettibili di fronte a ogni minimo attentato all’amor proprio. Le cronache sono un rosario senza fine di delitti e baruffe, familiari e condominiali. Laddove esiste l’obbligo della convivenza o della vicinanza, l’essere umano esplode in reazioni sproporzionate. Ci si prende a pugni, e talvolta a pistolettate, per un cane che abbaia, una frase sgarbata, un’auto parcheggiata male. Ultime gocce di un bicchiere riempito ogni giorno, oltre che da troppo alcol, da un distillare di dispetti e rancori.

Futili motivi, si dice in questi casi. Ma è futile anche continuare ad attribuirne la colpa ai soliti sospetti: la noia, lo stress, l’aggressività, il consumo eccessivo di carne, l’inquinamento acustico e atmosferico. Tranne l’ultimo, questi demoni sono sempre esistiti. E non basta dire che un tempo venivano convogliati nella macelleria collettiva della guerra. Come non basta scaricarne il peso sul solito capro espiatorio: la società. Qui sono nervosi i ricchi e i poveri, anzi, i ricchi più dei poveri. Sono nervosi gli abitanti delle periferie anonime e quelli dei luoghi turistici. Sono nervosi gli assunti e i licenziati, i single e gli sposati, i creativi e i burocrati, i colti e gli ignoranti. La spiegazione sociologica diventa un alibi per espellere un problema che invece sta dentro di noi.

«Lei non sa chi sono io», è la classica frase dell’isterico in azione. Ma forse andrebbe cambiata in: «Io non so chi sono io». Questa rabbia senza passione, infatti, è la forma di rassicurazione di un ego sempre più debole e infelice. Un ego spaventato dal futuro e bisognoso di attestati, a cui le piazze sociali di Internet hanno fornito una sterminata passerella, che si pone al centro del mondo ed esalta il potere volatile delle emozioni, sostituendole ai sentimenti e a quella suprema affermazione di sé che consiste nel sapersi controllare sotto pressione. Un ego che, non essendo in grado di stimarsi da solo, ha perennemente bisogno di conferme, e non riuscendo ad averle, le cerca nella prevaricazione del prossimo. Per riuscire a sentirsi alto, deve per forza abbassare gli altri. E poiché non si rispetta, interpreta ogni gesto sfavorevole come una mancanza di rispetto nei suoi confronti.

La felicità, dice il saggio, consiste nel desiderare ciò che si ha. Mentre troppi desiderano ciò che non hanno e si sentono dei falliti o delle vittime se non riescono a raggiungerlo. Da qui il paradosso di persone che digeriscono senza fare una piega ingiustizie e drammi autentici, come la perdita del posto o lo sfascio di una famiglia, ma reagiscono in modo scomposto perché un passante in bicicletta ha osato sfiorare la punta dei loro mocassini.

C’è un altro paradosso: ormai gli scoppi d’ira avvengono più nel tempo libero che in quello lavorativo, in casa o per strada più che in ufficio. Come se solo gli ambienti di lavoro conservassero ancora quel minimo di regole gerarchiche che riescono a tenere a bada gli istinti primordiali. E come se persino i maschi avessero affidato al tempo libero, e non più al lavoro, il compito di misurare il loro valore.

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