14.2.14

Hannah Arendt



Complesso.
E' stato facilissimo trovare un aggettivo per il film di Margarethe Von Trotta che racconta un pezzo di vita della filosofa ebrea Hannah Arendt. Il pezzo di vita è quello che riguarda il periodo in cui la Arendt segue il processo contro il nazista Eichmann a Gerusalemme, il controverso articolo che pubblicherà per il New Yorker e il famoso libro scaturito dalle riflessioni provocate dal processo e dalle parole di Eichmann. Il libro è La banalità del male.
In soldoni-oni-oni, la Arendt fa notare come le azioni (mostruose) del nazista Eichmann fossero la coseguenza 'solo' di ordini impartiti dall'alto, una questione 'solo' burocratica. Eichmann al processo infatti si difende con le parole 'seguivo gli ordini' e dicendo anche che le conseguenze delle sue azioni  non erano cose che lo riguardavano; riguardavano un altro reparto. Non mostri quindi, ma dei banali burocrati. Il passaggio successivo della Arendt è che questi regimi totalitari funzionano perché le persone smettono di pensare. Eichmann non pensa; non pensa a quello che sta facendo, ma esegue solo degli ordini. E il pensiero è ciò che caratterizza l'essere umano, secondo la pensatrice tedesca, è ciò che ci distingue, che ci fa essere esseri umani. Di conseguenza i regimi totalitari, per nascere ed esistere, contano sulla disumanità delle persone, persone che decidono di non pensare, decidono di non essere umani. Nei suoi articoli, inoltre, Hannah Arendt punta il dito anche contro i leader della comunità ebraica che fecero troppo poco.
(Chiedo scusa, perché la questione è veramente - appunto - complessa. Anche affascinante. E probabilmente ho detto cose inprecise, se non sbagliate.)
L'articolo del New Yorker provocò delle reazioni terribili, soprattutto della comunità ebraica. In Israele il suo libro è stato tradotto solo recentemente. Hannah Arendt perse amici, venne naturalmente accusata di antisemitismo e essendo donna si beccò i soliti insulti riservati alle donne che invece di arrivare via web arrivavano per posta o infilati sotto la porta.
Questa è la storia.

Il film.
Il film oltre a essere complesso perché è complessa la storia, è interessante perché è interessante la storia. Difficile separare il film dalla storia; forse proprio perché l'intento del film era proprio quello di raccontare la storia nel modo migliore possibile senza cedere troppo a intenti artistici, che potevano diminuire la potenza della storia. E la storia è davvero potente.
Poi io conosco poco Margarethe Von Trotta, magari questo stile asciutto è tipico di tutti i suoi film. Aciutto ma anche passionale: si vede che la Arendt proprio le piace. E nonostante la Arendt per i suoi pensieri viene anche accusata di essere fredda e non avere cuore, nel film dimostra tutta la sua passionalità.

Particolarmente bello è il discorso finale che Hannah Arendt fa a sua difesa davanti alla sua classe di studenti nell'Università Americana dove insegna - è molto amata dagli studenti mentre il corpo docente cerca di costringerla alle dimmessioni. Oltre a speigare la sua tesi, Arendt dirà anche che quello che aveva cercato di fare era capire. Capire come il nazismo era potuto accadere. Capire è importante.

Il film dice moltissimo altro.
Hannah Arendt è un personaggio complesso.


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